Da martedì 2 a domenica 14 aprile 2019, la Fondazione Nicola Trussardi presenta A Friend, un’imponente installazione concepita appositamente per i due caselli daziari di Porta Venezia dall’artista ghanese Ibrahim Mahama (Tamale, Ghana, 1987), a cura di Massimiliano Gioni. L’installazione è realizzata in occasione dell’Art Week milanese, coordinata dal Comune di Milano, e rimarrà visibile anche per l’intera durata della Design Week.
Dopo i suoi grandi interventi all’interno di importanti rassegne internazionali di arte contemporanea – dalla 56. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia (2015) a Documenta 14 (2017) a Kassel e Atene – la Fondazione Nicola Trussardi ha invitato Mahama a realizzare a Milano un’installazione su scala urbanistica che coinvolgerà interamente un luogo simbolo della città: il crocevia di Porta Venezia, una delle sei porte principali della cinta urbana, che sorge sullo stesso asse viario su cui erano sorte in precedenza le omonime porte di epoca romana, medievale e spagnola. Per secoli Porta Venezia è stata per Milano la porta d’Oriente, segnando il confine che delimitava il territorio urbano rispetto alla campagna, luogo che storicamente ha contribuito a definire la topografia di Milano e la relazione tra la città e il mondo esterno, ricorrente tanto nella vita quanto nelle cronache: dall’ingresso della peste che devastò la città con l’epidemia del XVII secolo, passando per le descrizioni nelle pagine de I Promessi Sposi, fino ad arrivare ai quartieri multietnici che oggi si articolano intorno a questo snodo fondamentale. A Friend vuole innescare una riflessione sul concetto stesso di soglia, quel luogo di passaggio che definisce l’interno e l’esterno, il sé e l’altro, l’amico e il nemico.
Come già avvenuto per le numerose opere pubbliche realizzate da Ibrahim Mahama nelle capitali dell’arte contemporanea in musei, biblioteche, palazzi governativi, teatri e stazioni ferroviarie, anche a Milano l’artista avvolgerà i caselli neoclassici di Porta Venezia con sacchi di juta, creando una seconda pelle che conferirà ai due edifici una nuova identità, portandoci a riguardarli non più come semplici monumenti, ma alla luce della loro origine storica e della loro funzione simbolica ed economica come luogo di scambio commerciale. Rivolgendosi a tutte le persone che quotidianamente abitano e frequentano la città, Mahama metterà in scena in uno snodo nevralgico per la viabilità cittadina uno spettacolo temporaneo capace di confrontarsi con il passato e il presente di Milano. In questa presentazione milanese, l’opera di Mahama sembra anche ricollegarsi esplicitamente agli interventi urbanistici dell’artista Christo, che negli anni Settanta aveva impacchettato i monumenti a Leonardo da Vinci e a Vittorio Emanuele in Piazza Scala e Piazza Duomo. Se in quegli anni le azioni di Christo sembravano criticare il mondo dei consumi, oggi le “dimostrazioni civili” – come le descrive l’artista – di Mahama raccontano un mondo assai più complesso di tensioni globali.
Attraverso la ricerca e la trasformazione dei materiali, Ibrahim Mahama indaga alcuni dei temi più importanti della contemporaneità: la migrazione, la globalizzazione e la circolazione delle merci e delle persone attraverso i confini e le nazioni. Le sue installazioni su larga scala impiegano materiali raccolti da ambienti urbani, come frammenti architettonici, legno, tessuti e, in particolare, sacchi di juta che vengono cuciti insieme e drappeggiati su imponenti strutture architettoniche. Come i sacchi americani usati per la distribuzione in Europa degli aiuti alimentari del piano Marshall furono probabilmente alla base dell’ispirazione di Alberto Burri, così i sacchi di Mahama sono elementi fondamentali della sua ricerca: simbolo dei mercati del Ghana, sono fabbricati in Asia e importati in Africa per il trasporto su scala internazionale di merci alimentari e di vario genere (cacao, fagioli, riso, ma anche carbone).
Strappati, rattoppati e marcati con vari segni e coordinate, i sacchi con le loro drammatiche ricuciture raffazzonate diventano garze che tamponano le ferite della storia, simbolo di conflitti e drammi che da secoli si consumano all’ombra dell’economia globale. I sacchi di Mahama racchiudono allo stesso tempo un significato più nascosto che riguarda la forza lavoro che si cela dietro la circolazione internazionale delle merci. Il sacco di juta, spiega l’artista, “racconta delle mani che l’hanno sollevato, come dei prodotti che ha portato con sé, tra porti, magazzini, mercati e città. Le condizioni delle persone vi restano imprigionate. E lo stesso accade ai luoghi che attraversa”. Per assemblare i sacchi, spesso Mahama collabora con decine di migranti provenienti da zone urbane e rurali in cerca di lavoro, senza documenti né diritti, vittime di un’esistenza nomade e incerta che ricorda le condizioni subite dagli oggetti utilizzati nelle proprie opere.
Strappati, rattoppati e marcati con vari segni e coordinate, i sacchi con le loro drammatiche ricuciture raffazzonate diventano garze che tamponano le ferite della storia, simbolo di conflitti e drammi che da secoli si consumano all’ombra dell’economia globale. I sacchi di Mahama racchiudono allo stesso tempo un significato più nascosto che riguarda la forza lavoro che si cela dietro la circolazione internazionale delle merci. Il sacco di juta, spiega l’artista, “racconta delle mani che l’hanno sollevato, come dei prodotti che ha portato con sé, tra porti, magazzini, mercati e città. Le condizioni delle persone vi restano imprigionate. E lo stesso accade ai luoghi che attraversa”. Per assemblare i sacchi, spesso Mahama collabora con decine di migranti provenienti da zone urbane e rurali in cerca di lavoro, senza documenti né diritti, vittime di un’esistenza nomade e incerta che ricorda le condizioni subite dagli oggetti utilizzati nelle proprie opere.