Schiacciata tra le province di Bergamo, Brescia e Sondrio, la Valle di Scalve è una piccola valle d’alta montagna, capace di mantenere la sua unicità, tra villaggi minerari in quota, rifugi alpini e fieri cercatori di minerali.

di Erica Balduzzi

L’ITINERARIO (a piedi e in auto)

  • Punto di partenza: Colere (località Carbonera)
  • Punto di arrivo: Schilpario (località Pradella)
  • Dislivello: +/- 900 metri
  • Tempo di percorrenza complessiva dell’itinerario: due giorni (con pernottamento presso il Rifugio Albani)
  • Tempo di salita al rifugio: 2 / 3 ore
  • Tempo di discesa dal rifugio: circa 2 ore
  • Difficoltà: E, escursionistico.

VALLE DI SCALVE A PIEDI

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VALLE DI SCALVE IN AUTO

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HIGHLIGHTS

Ecomuseo delle miniere

A Colere, nell’edifico delle vecchie Laverie (dove cioè veniva lavato e frantumato il materiale estratto nelle miniere in quota) oggi è stato allestito l’Ecomuseo della Presolana e Museo delle Miniere Zanalbert: uno spazio didattico, di approfondimento e conoscenza di tutto ciò che l’estrazione del ferro ha significato per il territorio scalvino. Fatevi raccontare direttamente dal gestore Piero Bettineschi la storia locale, la vita dei minatori e la provenienza dei minerali in mostra: è stato lui a cercarli e raccoglierli.

  • Info: Ecomuseo delle Miniere Zanalbert, via Polzone 15-17, località Carbonera.  Per visite, contattare Piero Bettineschi: tel. 0346.54051, cell. 331.5411613

Diga del Gleno

Il 1 dicembre 1923, alle ore 7:15 del mattino, la Diga del Gleno crollò e travolse l’intera valle, uccidendo quasi 500 persone. Realizzata secondo la tipologia ad archi multipli, la diga – costruita a 1500 metri nella Piana del Gleno, sopra Vilminore – era considerata ai tempi una meraviglia dell’ingegneria idraulica, ma già gli operai ne avevano denunciato le falle. Il crollo segnò un tremendo spartiacque per la valle, e i due tronconi residui della diga sono ancora visibili, con una facile camminata di circa un’ora.

Licheni islandici, il cibo dei minatori

Tra i prodotti tipici della Valle di Scalve, ci sono i licheni islandici. Venivano anticamente cercati dai minatori per accompagnare piatti altrimenti poverissimi: si trovano solo oltre i 2000 metri di quota, in tarda estate, e la raccolta è difficoltosa perché bisogna stare chinati, bassi sulle aree ombrose ai piedi dei rododendri. Poi vengono fatti seccare, pronti per essere sbollentati all’occorrenza: si mangiano conditi con olio e aglio, oppure con patate e barbabietole per stemperarne il gusto amarognolo.

Una valle di formaggi 

Numerosissimi – come da radicata consuetudine alpina – sono qui i formaggi locali, tutti prodotti con latte 100% scalvino: sul podio c’è la Formaggella della Val di Scalve, registrata in Camera di Commercio come produzione tipica locale, seguita da prelibatezze quali il Quadrel (stagionato da piastra) oppure il Formaggio Nero della Nona 1753, quest’ultimo realizzato sulla base di un’antica ricetta rinvenuta casualmente durante la ristrutturazione di una baita, presso la frazione di Nona. I formaggi – così come gli yogurt, i dessert e i gelati – si possono trovare presso la Latteria Sociale Montana di Scalve di Vilmaggiore, storico caseificio e cooperativa agricola attiva in valle dal 1968.

INFORMAZIONI UTILI

DOVE DORMIRE

DOVE MANGIARE

  • Ristorante San Marco, via Pradella 3, località Pradella, Schilpario (BG), tel. 0346.55024, www.albergo-sanmarco.it
  • Chalet Engadina, via Arciprete Figura 34, Vilminore (BG), tel. 0346.51558

INFORMAZIONI TURISTICHE

L’ITINERARIO

Partite da Colere, precisamente dalla località Carbonera (1043 metri slm), dove potete lasciare gratuitamente l’auto nel parcheggio della Ski Area.

Imboccate il sentiero CAI 403 e, superate un paio di baite, al bivio imboccate il sentiero a sinistra, sterrato. Seguite sempre il percorso CAI 403: le altre indicazioni – su cartelli di legno e dipinte in giallo sugli alberi – rappresentano il percorso invernale per lo sci d’alpinismo, pertanto ignoratele.

L’intero percorso fino al rifugio Albani  (1939 metri slm) dura all’incirca 2 ore e mezza. Pernottate al rifugio non solo per provare la calorosa accoglienza dei due gestori, Sandra e Chicco, ma anche per assaporare da vicino il fascino magnetico delle pareti calcaree della Presolana, suggestive soprattutto all’alba e al tramonto.

Il mattino successivo, tornate a Carbonera seguendo questa volta  il sentiero CAI 402 che parte nei pressi della Baita Alta di Polzone: tenete la destra, costeggiate il laghetto del Polzone e scollinate nei pressi del Passo della Guaita.

Al primo bivio, sul limitare di un ghiaione, tenete la sinistra (il sentiero è ben segnalato) e proseguite in discesa. Dopo circa un’ora e mezza di cammino, il sentiero si fa più morbido ed entra  nel bosco, toccando anche un’antica “calchera” (struttura utilizzata per la produzione della calce) e raggiungendo la bella pineta di Pian di Vione.

Superata l’area picnic, un cartello in legno indica di tenere la sinistra per raggiungere infine nuovamente Carbonera. Il sentiero sbuca esattamente davanti all’Ecomuseo della Presolana e Museo delle Miniere Zanalbert e al parcheggio.

Recuperate l’automobile e proseguite in auto verso l’abitato di Teveno, dove  potete ammirare l’ultimo esempio superstite di fucina di finitura della valle di Scalve, e successivamente verso Schilpario, dove potete visitare il Museo Etnografico e il Museo dell’Illuminazione Mineraria.

Dopodiché proseguite con l’automobile in direzione Passo del Vivione per altri 3 chilometri circa, per raggiungere località Gaffione e il Parco Minerario Ingegner Andrea Bonicelli (troverete le indicazioni sulla sinistra):sono le uniche miniere della valle aperte alle visite guidate.

L’itinerario si conclude in località Pradella di Schilpario, con una visita al Museo dei Minerali e dei Fossili presso l’Hotel San Marco.

NOTE DI VIAGGIO

«In un certo senso è come dar vita a qualcosa di sacro. Portare alla luce cristalli, fossili e minerali che la luce non la vedono da milioni di anni, o non l’hanno vista mai è qualcosa di magico. Anche se sono fatti di pietra, crescono come qualcosa di vivo».

Antonio apre la teca, ci porge una piccola roccia spaccata la cui cavità accoglie un sorprendente, minuscolo ciuffo di cristalli bianchi, i fitti raggi così sottili da non parer nemmeno minerali: un fiore di aragonite, ci spiega. «Non è bellissimo? – gli occhi brillano – Ci vogliono centinaia di anni perché se ne formi uno. Bisogna cercarli laddove la roccia è crollata e dove l’acqua, filtrando, scioglie il gesso lasciando un vuoto. Il vuoto è necessario affinché inizi la cristallizzazione. Io li cerco nelle vecchie miniere abbandonate: qui attorno ce ne sono tantissime».

Antonio Pizio è uno dei cercatori di minerali e fossili della Val di Scalve, in provincia di Bergamo: albergatore nella vita e novello Indiana Jones per passione, da oltre trent’anni va a caccia dei tesori nascosti nel buio della terra e delle vestigia di un tempo remotissimo e immemore, quando quella che oggi è la Regina delle Orobie – la Presolana, con i suoi 2521 metri e le sue pareti calcaree che cambiano colore col mutare della luce – non era ancora montagna ma fondale tropicale.

A raccontarlo sono le stratificazioni di antichissimi coralli, di nautilus, di trilobiti, di gasteropodi risalenti al Triassico: «In Presolana, ogni volta che calci un sasso trovi un fossile », dice la gente di qui.

Una storia di minatori e di miniere

La storia scalvina è da sempre indissolubilmente legata alla presenza del ferro e all’opera messa in atto dall’uomo per estrarlo.

Schiacciata tra la Valle Seriana, la Valcamonica e la Valtellina e così impervia che il suo nome pare derivi dalla parola celtica skalf, cioè “fessura”, la Val di Scalve è percorsa dal torrente Dezzo e abbracciata da una cerchia di montagne tra cui spiccano il Massiccio della Presolana, il Pizzo Tornello, il Cimon della Bagozza e il Pizzo Camino; i quattro comuni  che la compongono – Colere, Vilminore, Schilpario e Azzone – sono sbriciolati in una serie di piccole frazioni, esigui abitati che punteggiano i pendii come piccoli greggi stretti attorno a campanili sparsi.

I primi a sfruttare i giacimenti di ottimo ferro della Vallis Decia (“Valle del Dezzo”) furono i Romani. Poi fu la volta dei Longobardi, del Sacro Romano Impero e di una serie di passaggi di mano e di feudo che ebbero come esito ultimo il sollevamento della popolazione scalvina e la costituzione della Comunità di Scalve da parte delle Vicinie, aggregazioni di famiglie locali (i “fuochi”) il cui sodalizio ebbe il merito di proteggere l’autonomia della valle anche per quanto riguardava l’estrazione del ferro locale.

La comunità non esitò poi a chiedere l’annessione alla Repubblica Veneta pur di mantenere i privilegi del territorio, non da ultimo l’assenza tasse e la possibilità di sfruttare liberamente le proprie miniere e di vendere il materiale estratto.

Con il passaggio sotto il governo napoleonico, nel 1796, l’economia estrattiva in valle subì una contrazione e nemmeno la costruzione della prima strada d’accesso alla valle – la Via Mala – riuscì a invertire il declino dell’industria mineraria locale, incapace di stare al passo con le trasformazioni tecnologiche messe in atto dalla rivoluzione industriale.

Bisogna aspettare gli anni Trenta del Novecento perché la situazione cambi nuovamente: in quegli anni, la politica autarchica del governo fascista e la richiesta di acciaio per gli armamenti spinse le grandi società siderurgiche nazionali – come la Breda, la Falck e la Ferromin – a rilevare le concessioni minerarie scalvine e a introdurre nuovi macchinari per potenziare l’attività estrattiva.

Sono anni di grandi numeri estrattivi e di miglioramento delle condizioni di lavoro dei minatori, ma l’idillio dura relativamente poco: l’attività delle miniere al Passo della Manina, sopra l’abitato di Nona, cessa alla fine della Seconda Guerra Mondiale, mentre la chiusura del forno fusorio di Dezzo sposta la lavorazione del ferro a Sesto San Giovanni. Alla valle resta così solamente l’attività estrattiva, sempre più asfittica.

Nel 1972, chiudono definitivamente anche le miniere di Schilpario e in Presolana (Colere).

È la fine di un’epoca. Molta gente emigra, cerca lavoro a Bergamo o a Brescia. La valle cambia faccia, diventa località sciistica in inverno ed escursionistica d’estate, accoglie turisti e villeggianti. Ma cosa rimane oggi, viene da chiedersi, di quell’antico cuore di ferro?

Cosa rimane, se non il ricordo di chi – sempre più pochi, in realtà – il tempo delle miniere l’ha vissuto in prima persona?

Alle pendici della Presolana

Dal Rifugio Albani, la luce ambrata del tramonto trasforma la Regina delle Orobie in una cattedrale d’oro. Il Pizzo Camino è una sagoma pallida, già sfumata nella sera; la Val di Scalve sottostante una sinuosità verde scuro, punteggiata dalle prime luci.

Le ex baracche dei minatori poco prima del rifugio – un piccolo agglomerato di casette e baite attorno all’ingresso principale delle miniere dismesse – sono già in ombra.

Qui si estraevano principalmente galena, calamina, blenda e fluorite e fino agli anni Settanta vi abitavano all’incirca una sessantina di persone: salivano in quota il lunedì mattina, scendevano a valle il venerdì.

In mezzo, una settimana trascorsa nel buio della montagna. Gli uomini scavavano, le donne selezionavano gli scarti, i bambini erano purtì e strusì (cioè addetti al trasporto all’esterno del materiale estratto): vite durissime, difficili forse da immaginare per noi, gente del 2022, con le nostre giacche tecniche, gli scarponi di montagna ai piedi e affaticati dopo solo poche ore di camminata.

Della quotidianità dei minatori nell’ex villaggio in quota sono ancora visibili alcuni dettagli: il trenino arrugginito della miniera, i vecchi pali della teleferica per trasportare il materiale nelle laverie di Colere, un’esposizione di attrezzi da lavoro.

Ma anche una minuscola santella votiva sopra una fonte d’acqua, un piccolo campo di bocce per i momenti di relax, alcune baracche ristrutturate dal Comune. Una di esse, la Capanna Trieste, dal 1924 al 1967 ha funzionato da rifugio, prima di essere sostituita dall’attuale struttura dedicata a Luigi Albani, pioniere della parete nord della Presolana.

Il rifugio Albani da cinque anni è gestito da Sandra Bottanelli ed Enrico (Chicco) Zani: sito nella conca del Polzone a 1939 metri d’altitudine, è sormontato dalla verticalità bianca e immobile della Presolana settentrionale ed è diventato negli ultimi anni punto di appoggio non solo per quanti vogliono esplorare la zona e scoprirne la storia mineraria e geologica, ma anche per il mondo dell’alpinismo e del climbing.

«Lavorando qui si entra in contatto con l’alpinismo vero, quello essenziale e autentico fatto di persone che amano la montagna, e amano viverla davvero, senza fronzoli turistici», racconta Sandra, versandoci un bicchiere di genepì e sedendosi con noi a chiacchierare.

La parete Nord della Presolana, ci spiega, è il paradiso dell’arrampicata. Elisa Piantoni, la sua giovanissima collaboratrice, annuisce con gli occhi accesi di passione: è una climber scalvina al 100%, e quando stacca dal lavoro si mette in parete; lei e i suoi amici conoscono tutte le falesie della zona, dalle più turistiche a quelle “segrete”. «Peccato – commenta Elisa – che siamo in pochi a promuovere questa attività, qui in valle».

Pochi ma innamorati, verrebbe da dire, stando almeno al picco di romanticismo con cui sono state nominate le falesie in zona: “Scrigno dei desideri”, “Vascello Fantasma” e “Placca dell’Olandese Volante”, tanto per dire qualche nome.

«Questa è una valle ricchissima sotto tutti i profili: minerario, naturalistico, culturale», commenta Sandra, camuna di origine ma ormai scalvina di elezione e di cuore

È un luogo da vivere piano e da scoprire con rispetto. E ha un potenziale enorme. Qui, la gente ama davvero il suo territorio».

 

 

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